“Apollosa” non è in grado di documentare la propria storia, quindi, gran parte di ciò che si presuppone siano le sue origini deriva da fonti orali.
Appare opportuno documentarsi sul significato di storia orale e pertanto si riporta ad uno studio condotto dall’AISO (Associazione Italiana di Storia Orale) nel febbraio 2012.
La formazione delle fonti orali: questioni teoriche
Giovanni Contini
Se volessimo caratterizzare la “fonte orale” con una breve e semplice descrizione, potremmo dire che essa è un racconto, una narrazione, una testimonianza orale. Il processo che conduce alla formazione di tale fonte, è complesso e implica l’intervento di due soggetti: l’intervistato e l’intervistatore. Dalla relazione reciproca di queste due parti nasce l’“intervista”, il documento orale.
È possibile rilevare un consolidato utilizzo della fonte orale, nella sua forma audio e audiovisiva, in vari campi disciplinari: tralasciando per un attimo l’ambito storico, di cui ci occuperemo ampiamente, le fonti orali sono utilizzate nelle ricerche antropologiche, sociologiche e di etno-musicologia; tuttavia il dibattito teorico sul loro utilizzo è molto vivace e forse dovuto, almeno in parte, alle particolari caratteristiche della fonti orali che sollevano questioni di grande rilievo, una fra tutte, la loro natura soggettiva.
L’intervento di Giovanni Contini alla Scuola di Storia orale, si è concentrato su alcune delle questioni nominate dando rilievo, in particolar modo, al processo di formazione delle fonti orali e al loro utilizzo nei diversi campi storiografici. Tale impiego è da considerarsi legittimo e indispensabile:
Le informazioni orali e audiovisive sono fondamentali per quelle vaste aree dell’esperienza e dell’attività che non hanno lasciato traccia scritta, per le quali non esiste il tradizionale documento/fonte o esiste in misura del tutto limitata ed insufficiente (Contini 1993, 35).
Secondo Contini, esistono dei mondi, chiamati dai vecchi “classi subalterne” di cui non si hanno molte tracce: chi va alla ricerca delle tracce scritte del mondo contadino, troverà solo opere letterarie dedicate (romanzi, novelle) oppure le informazioni registrate sui giornali delle fattorie, nei quali il padrone della terra annotava le merci prodotte, il numero dei capi del bestiame, il numero dei contadini ecc. Le informazioni presenti su questi documenti, evidenziano solo gli aspetti economici ed esprimono il punto di vista del padrone della terra che considerava i contadini esclusivamente come produttori di ricchezza. Tuttavia l’elemento economico è solo uno degli aspetti che potrebbero emergere in una ricerca approfondita: vi è un “mondo culturale” di relazioni sociali, che solo le fonti orali possono raccogliere e testimoniare.
Lo stesso fenomeno si verifica, secondo Contini, per la categoria dei minatori: è possibile studiare la storia di una miniera o di un borgo minerario come Abbadia San Salvatore (Siena), mediante la documentazione degli archivi delle società minerarie. In questi documenti si vede come i tecnici minerari decidevano di impiantare le gallerie e in quali luoghi, ma sono assenti tutta una serie di informazioni su come il lavoro era veramente strutturato, sulle “pratiche lavorative”; non si hanno notizie, per esempio, su come avveniva la trasmissione dei comandi tra le varie professionalità (i tecnici minerai, i minatori, i manovali del cantiere), sulla dialettica e le relazioni che si instauravano tra i minatori e i sorveglianti. In conclusione, senza il racconto diretto dei protagonisti, tutte queste informazioni andrebbero perse. Si vedano in proposito le opere di Contini (1994; 1997).
Dopo aver mostrato il rilevante impiego delle fonti orali nei contesti storiografici esaminati, Contini affronta una questione che da sempre anima il dibattito teorico sulle fonti orali: la loro legittimità e veridicità. Secondo l’autore, le fonti orali sono da considerarsi fondamentali, anche quando sono imperfette. Le fonti orali sono fonti di memoria e “la memoria è un serbatoio in continuo divenire, un archivio in trasformazione dove accanto agli scarti si determinano correzioni, rivisitazioni e riscritture” (Contini 1993, 52).
Per fare un esempio, nelle interviste raccolte dal Usc Shoah Foundation Institute for Visual History and Education, si poteva osservare, non di rado, una “particolarità della memoria”: in alcune testimonianze dei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, il ricordo della vita nel campo, in relazione alla prima fase della loro permanenza, era lineare ed esatto nei particolari (i testimoni ricordavano il campo di arrivo, il suo nome, la località). Ripercorrendo invece le esperienze successive, emergevano dei riferimenti non compatibili con quanto accertato successivamente (per esempio un testimone internato in un particolare campo, ricordava degli elementi che appartenevano ad un altro).
Accade dunque di dover in qualche modo interpretare una memoria che, da un certo momento in poi, non riesce più ad essere esatta ed è piena di lacune. In alcuni casi le parole di un testimone sono un tentativo, spesso non cosciente, di riempire quelle zone di esperienza che allo stesso testimone erano rimaste prive di contenuti.
Qualsiasi intervista rilasciata, non solo quelle di chi ha vissuto vicende drammatiche, dipende fortemente dal “punto di vista” espresso dal testimone, dall’interpretazione personale del suo passato, dalla sua auto-rappresentazione. Molto spesso quando compaiono errori e incongruenze, le testimonianze possono essere delle memorie collettive della comunità:
Soprattutto quando ci si relaziona con persone per le quali la cultura della comunità svolge ed ha svolto un ruolo importante, il racconto della propria vita personale dipende in larga misura da quella che possiamo chiamare la visione del mondo localmente condivisa, cioè quella elaborazione della storia locale che diventa riflessione collettiva (Contini 1993, 20).
Lo studio di Contini (1987) sulle vicende storiche del paese di Santa Croce sull’Arno (Pisa), mette in risalto questo fenomeno. Dalle testimonianze orali degli abitanti si apprende come il successo economico del paese, specializzato nella conciatura delle pelli, fosse dovuto alle “buone qualità morali” dei cittadini, i quali erano onesti, fiduciosi gli uni con gli altri e democratici. I racconti degli abitanti di Scarperia (Contini, 1989), un borgo toscano specializzato nella costruzione di coltelli, attribuivano il tracollo economico degli anni Novanta alle cattive qualità degli abitanti, che erano diffidenti e “si rubavano” i clienti. Nessun riferimento viene fatto a elementi esterni alla comunità che avrebbero potuto causare la crisi, come l’introduzione di nuove leggi nazionali, la concorrenza dei mercati stranieri ecc.
La rappresentazione elaborata dagli abitanti esprime una semplicistica “visione positiva” degli eventi, nel caso di Santa Croce sull’Arno, e una “visione pessimista”, nel caso di Scarperia, anche se le interviste contengono particolari interessanti e non uniformi. Contini sostiene che questa specie di “filosofia di paese” non è semplicemente una falsificazione, ma un tentativo di dare una coerenza logica a una vicenda, è una “cattiva storiografia”. In questi casi quello che si tratta di fare è “smontare” questa visione del mondo collettiva, capire come sono andate realmente le cose partendo dalle testimonianze: “risalire al paradigma interpretativo radicato nella realtà sociale e territoriale di appartenenza e collegare conseguentemente e correttamente le diverse informazioni fornite” (Contini 1993, 52).
In alcuni casi i testimoni adottano una particolare visione del mondo collettiva perché non riescono a darsi spiegazioni di un determinato fenomeno (come il successo o il fallimento economico di una comunità), o non hanno i mezzi culturali per farlo.
Nell’ambito delle ricerche di storia orale, sostiene Contini, vi sono studiosi che sottovalutano l’importanza dell’immagine nell’intervista e preferiscono registrare solo nel formato audio. Forse questa scelta poteva essere appropriata nella fase iniziale della storia orale, quando fare un’intervista con una videocamera, significava la presenza necessaria di un operatore e l’utilizzo di macchine molto complesse ed ingombranti, o di un sistema di illuminazione che disturbava i testimoni.
In realtà negli ultimi tempi, sono comparse sul mercato delle macchine potenti che possono essere posizionate semplicemente sul tavolo di fronte al proprio interlocutore senza creare scompiglio.
Con il sistema di ripresa audio-video è possibile intervistare le persone mentre svolgono delle operazioni. Nell’ambito di ricerche sulle attività artigianali, l’intervistato può mostrare le operazioni manuali di cui sta parlando (come la costruzione di un orcio o un vaso di terracotta). Un’intervista eseguita durante lo svolgimento di un’operazione lavorativa è molto efficace perché le persone coinvolte parlano più liberamente e si sentono meno “schiacciate” dalla relazione con l’intervistatore.
Le immagini sono importanti anche per un altro motivo: le interviste video riportano la mimica dei soggetti la quale è in grado di commentare, involontariamente, le parole pronunciate. Se l’intervistato “dice una bugia”, può essere smentito dalla sua stessa mimica.
Ad ogni modo, la scelta dei ricercatori a favore della registrazione audio o della video intervista è legata ai personali obiettivi e alle metodologie adottate, perché gli strumenti sono sempre una parte integrante e fondamentale della ricerca.
Gabriella Gribaudi
L’intervento di Gabriella Gribaudi, presidente Aiso e professore di Sociologia all’Università degli Studi Federico II di Napoli, ha approfondito la relazione tra storia orale e città.
Come si descrive la città? Come si descrive lo spazio urbano? Secondo un approccio che Gribaudi considera tradizionale, vi sono dei paradigmi descrittivi riconducibili a tre tipologie: la descrizione funzionalistica, la descrizione formalista e il paradigma della modernizzazione. Il primo approccio descrive i luoghi della città in relazione alle loro funzioni (i palazzi del potere, le piazze del mercato, i luoghi di cura); il secondo si concentra sulla sua forma, individuando una forma urbana industriale, pre-industriale, mediterranea ecc. Infine, il paradigma della modernizzazione, descrive la città evidenziando la sua evoluzione, il passaggio dall’epoca pre-moderna a quella moderna.
L’indagine della storia orale in relazione alla città, tenta di superare le tipologie descritte e si propone di “entrare nello spazio urbano” il quale è sempre uno “spazio di pratiche”.
Il concetto di spazio (in antitesi al luogo)e la nozione di pratiche introdotti da Gribaudi, hanno come riferimento esplicito, l’opera dello storico gesuita Michel De Certeau (1990). La storia orale prende in esame gli spazi della città (e non i luoghi) seguendo le riflessioni dell’autore: “Partiamo da una distinzione fra spazio e luogo che delimita un campo. È un luogo l’ordine (qualsiasi) secondo il quale degli elementi vengono distribuiti entro rapporti di coesistenza” (De Certeau 1990, 175). Quindi il luogo va inteso come la posizione/configurazione degli elementi sul campo. Il luogo si trasforma e diventa spazio quando gli elementi di cui è composto iniziano a muoversi, a interagire tra loro, a compiere delle azioni: “È spazio l’effetto prodotto dalle operazioni che l’orientano, lo circostanziano, lo temporalizzano, lo fanno funzionare come un’unità polivalente. Lo spazio è un luogo praticato” (De Certeau 1990, 175).
La città è uno “spazio sociale” formato dalle pratiche messe in atto dai suoi protagonisti; le pratiche sono delle operazioni, delle attività originali e imprevedibili che esprimono il modo di vivere, e di sopravvivere, degli abitanti. Gribaudi evidenzia come sia indispensabile “seguire le pratiche degli spazi, ricostruire i percorsi nello spazio e narrare lo spazio senza descriverlo dal di fuori”. In questo passaggio si evidenzia la distinzione fondamentale tra una semplice “descrizione” di un luogo e la “narrazione” di uno spazio: tra le due distinzioni la storia orale privilegia la seconda, raccogliendo le esperienze individuali dei testimoni e i racconti che mai potrebbero essere colti mediante un’indagine quantitativa.
Un esempio di tale approccio è lo studio di Gribaudi (2005) sulla rivolta napoletana contro gli occupanti tedeschi, episodio noto col nome delle “quattro giornate di Napoli” (28 settembre – 1° ottobre 1943). L’insurrezione della popolazione napoletana, fu la reazione della città alle violenze subite a partire dall’8 settembre 1943 e, in particolar modo, ai rastrellamenti compiuti dall’esercito tedesco a partire dal 28 settembre.
L’autrice ha raccolto numerose testimonianze e memorie delle persone coinvolte negli scontri, come quella di Antonio Amoretti:
Io abitavo in via Cristallini, a via Cristallini è sorto questo nucleo e c’era questo sottotenente di cavalleria che era un disertore. […] Ha organizzato questi gruppi, si è sparsa la voce… Io mi sono unito, ho visto che si cominciava sta barricata. La barricata era stata messa all’ingresso di via Cristallini, all’imbocco c’è un vicoletto, li fu eretta la barricata con i materiali presi dai palazzi crollati. […] Noi combattevamo per la difesa della strada, dei quartieri (Gribaudi 2005, 290).
Dopo aver ripercorso la storia dell’insurrezione mediante le narrazioni dei protagonisti, Gribaudi ha ricostruito le vittime delle quattro giornate attraverso il Registro dei morti dello Stato di Napoli; in questo caso l’incrocio delle fonti tradizionali con quelle orali ha prodotto interessanti risultati: si è appurato che i morti sul campo, provenivano prevalentemente dai quartieri più antichi e popolari della città: “I dati mettono in risalto la natura popolare dell’insurrezione e la distinzione nettissima tra le due parti della città: quella del grande centro storico e quella dei nuovi quartieri operai e borghesi” (Gribaudi 2005, 235).
Secondo l’autrice
l’insurrezione può essere letta come un’azione che nasce in uno spazio vissuto ed elaborato ogni giorno attraverso le pratiche ordinarie dei suoi abitanti. I quartieri antichi della città furono la struttura di base su cui vennero costruite le azioni militari, uno spazio sociale denso in cui circolavano le notizie e si prendevano le decisioni. L’insurrezione ebbe inizio perché lo spazio sociale e civile della città era stato gravemente ferito; lo spazio simbolico della città, che si mostra attraverso il proprio quartiere, è la vera patria da difendere.
Da un punto di vista storiografico, l’episodio delle quattro giornate di Napoli è molto rilevante, perché divenne subito materia di dibattito politico e subì una sorta di “processo interpretativo”. Per alcuni studiosi gli scontri armati furono un semplice gesto di ribellione sul modello delle forme primitive di rivolta sociale, descritte da Hobsbawm; in particolar modo Gribaudi evidenzia come le quattro giornate siano state associate al modello del mob cittadino (Hobsbawm 1959, 138). Tale interpretazione ha rafforzato l’idea di una sollevazione spontanea, senza obiettivi specifici e comandi organizzati. Al contrario l’autrice ritiene che contro l’occupazione tedesca si sviluppò una “resistenza civile” nella quale i cittadini hanno compiuto atti di disobbedienza, di opposizione e di solidarietà che si potrebbero definire pratiche di resistenza ordinaria.
È stata l’incapacità di analizzare con mente libera questo spazio sociale, di coglierne le dinamiche interne, a impedire il riconoscimento dell’insurrezione. Sono stati innanzitutto le relazioni e gli scambi che animano il quartiere, la memoria che vi si era costruita, a rendere possibile la mobilitazione in una congiuntura eccezionale. Emerge la complessità della stratificazione sociale dei gruppi combattenti e la razionalità delle loro azioni.
Si potrebbe dire che la storia orale abbia il compito di ricostruire il rapporto tra la “città delle pietre” e la “città dello spazio sociale”: il lavoro su Napoli è la narrazione di uno spazio sociale che tenta di mette insieme i pezzi della storia “perché le pietre possono essere lette con un linguaggio simbolico ed emergere nella memoria collettiva”.
Maria Immacolata Maciotti
Maria Immacolata Maciotti, professore di sociologia all’Università degli studi di Roma La Sapienza, considera l’approccio della storia orale “trasversale” alle discipline delle scienze sociali in quanto “la pratica e il modo di fare ricerca della storia orale potrebbe coinvolgere gli studiosi di storia, di psicologia sociale e di antropologia”.
In particolar modo in sociologia quella che viene chiamata storia orale si inserisce in un approccio qualitativo ampio entro il quale si utilizzano come metodologie tanto le dichiarazioni, quindi le storie orali vere e proprie, quanto i materiali scritti come carteggi, lettere, diari che raccontano le storie di vita delle persone.
L’opera del sociologo statunitense William Thomas Il contadino polacco in Europa e in America è uno dei primi esempi di indagine sociologica svolta a partire dai carteggi e diari dei soggetti coinvolti: il fenomeno dell’immigrazione polacca viene analizzato mediante i documenti privati dei protagonisti, dai quali emerge il forte legame con la terra d’origine, le difficoltà di adattamento ad un nuovo mondo e le trasformazioni in corso. L’attenzione della sociologia per la memorialistica inizia a partire da questo momento.
“Fare interviste, raccogliere e restituire narrazioni” è l’obiettivo del ricercatore che lavora con fonti orali. Ogni intervista (ci riferiamo alla registrazione audio perché la studiosa ha utilizzato prevalentemente questo tipo di formato) richiede molta preparazione, è un lavoro complesso che per essere ben svolto ha bisogno di tempo.
Tra il ricercatore e l’intervistato deve nascere un rapporto di fiducia, specialmente se le persone coinvolte sono immigrati senza il permesso di soggiorno, oppure sono coinvolte nella terra degli esseri umani, o in traffici di droga e prostituzione. È necessario, secondo Maciotti, “rassicurare” i testimoni e offrire delle garanzie reali per la loro incolumità, come per esempio impegnarsi a non rivelare il loro nome (nei casi che richiedono questa precauzione); è opportuno spiegare il perché dell’intervista e rendere noto il nome del committente del lavoro, se presente.
L’incontro e la conoscenza tra il ricercatore e l’intervistato sono l’anteprima dell’intervista, un elemento indispensabile nel quale si manifestano gli aspetti più sensibili e critici della ricerca: in alcuni casi la responsabilità e il coinvolgimento del ricercatore sono grandi perché il suo lavoro non è un’anonima e dozzinale ricerca di mercato.
Quali caratteristiche devono avere le domande? Maciotti ritiene che le domande devono essere semplici e lineari sia quando l’intervistato è una persona colta, sia quando è un analfabeta. Un esempio eccellente di semplicità sono le interviste realizzate da Claude Lanzmann nel film Shoah: l’autore privilegia le domande semplici, senza ambiguità e sentimentalismi.
Una questione spesso sottovalutata ma di grande importanza è il “passaggio dall’oralità alla scrittura”. Dopo aver raccolto l’intervista si procede nella sua trascrizione cercando di rendere al meglio il parlato. Alcuni studiosi ritengono di non dover inserire la punteggiatura perché questa non è presente nelle parole dell’intervistato; al contrario Maciotti sostiene che alcuni interventi sono necessari per rendere l’intervista pienamente comprensibile e fruibile. È opportuno eliminare le espressioni del tipo “emm” “amm”, comuni nel linguaggio parlato, sostituendole con la punteggiatura e inserire i commenti del ricercatore direttamente nel testo tra parentesi. Infine nelle note conclusive si potranno descrivere brevemente le modalità di intervento operate.
La trascrizione pone problemi specifici relativi al campo della filologia e sono attuali le parole di Paola Carucci quando argomenta:
Come sempre capita nel campo della trascrizione, la scelta di un rigore filologico assoluto o temperato da qualche intervento di normalizzazione dipende anche dalle finalità cui è diretta l’edizione dei documenti (Barrera 1993, 16).
Dopo aver illustrato le caratteristiche del “fare interviste, raccogliere e restituire narrazioni” Maciotti si sofferma su una questione terminologica: la distinzione tra il termine testimonianza e narrazione. Nella prima fase della storia orale in Italia (anni Sessanta e Settanta) i ricercatori hanno avuto l’impressione di “dare voce alle persone prive di voce” e di compiere “un’opera socialmente giusta” raccogliendo le storie delle periferie della città e degli ambienti più difficili. Si è quindi insistito sull’aspetto delle testimonianze e sul loro valore che “ribaltava la versione della storia ed esprimeva una visione dal basso”.
Oggi, sostiene Maciotti, si preferisce parlare di narrazioni (e non di testimonianze) con la consapevolezza che “si è di fronte a narrazioni di eventi che sarebbero potuti essere anche diversi da quello che sono, se l’intervistato avesse raccontato prima e non a distanza di trent’anni un certo episodio”. Tuttavia la presenza dei ricordi non esatti o delle versioni non veritiere non sminuisce l’importanza delle narrazioni: si rende solo necessario comprendere le ragioni di tale fenomeno. Nel corso del seminario si è rilevato che i termini testimonianza e narrazione, vengono usati con sfumature diverse, come del resto accade per le espressioni di intervistatore, intervistato, informatore. Le accezioni adottate dai ricercatori corrispondono alle loro esigenze di studio.
Trattamento e conservazione delle fonti orali: questioni tecniche
Pietro Cavallari
Nel secondo giorno a introdurre la parte laboratoriale del convegno è stato Pietro Cavallari, che lavora all’Istituto centrale per i Beni sonori e audiovisi (ex discoteca di Stato – museo dell’Audiovisivo) dove si occupa della catalogazione e descrizione dei documenti audiovisivi ed è referente per la documentazione storica della collezione dell’Istituto e responsabile del gruppo di lavoro “Storia orale”. Nel suo brevissimo intervento ha ricordato come il convegno svoltosi a Roma nel 19864 abbia dichiarato l’intervista una fonte che assurge alla dignità di documentazione storica alla stregua delle fonti archivistiche. Ha quindi evidenziato come l’Aiso aiuti ad affiancare la raccolta della documentazione al lavoro con strumenti tecnologici, fornendo delle linee guida nazionali. Infatti nel momento stesso in cui si crea una fonte questa deve essere consultabile e a questo servono la catalogazione, che permette di comunicala ad altri, e la conservazione. L’avvento del digitale ha creato una rottura con il passato poiché ha determinato una serie di problematiche nuove tra cui l’obsolescenza dei supporti.
Gli interventi poi di Luciano D’Aleo e Marco Marcotulli hanno approfondito l’argomento, facendo luce sulle questioni tecniche che riguardano sia la registrazione in audio che in video.
Luciano D’Aleo
Luciano D’Aleo è responsabile dell’area della tutela e conservazione della collezione audiovisiva dell’Istituto centrale per i Beni sonori e audiovisivi del ministero per i Beni e le Attività culturali. Dopo aver introdotto le nozioni tecniche fondamentali del suono e i concetti di frequenza e intensità, D’Aleo è entrato nel vivo della questione parlando dei vari mezzi di registrazione sonora che possono essere utilizzati e dei supporti che possono loro essere affiancati. Il microfono è l’elemento cardine dal quale dipende buona parte della qualità della registrazione. Alcune volte potrebbe essere utile utilizzare due microfoni che, posizionati nel giusto modo, permettono di registrare i suoni in maniera più mirata e selettiva. In base alle esigenze e alle disponibilità, insieme al microfono possono essere utilizzati anche una serie di accessori, alcuni dei quali sono indispensabili. Ad esempio l’asta che fissa il microfono, la cuffia anti vento che limita i rumori di fondo e le cuffie monitor che permettono di ascoltare quello che si registra e che sono fondamentali per capire la qualità del suono in entrata. Inoltre, visto che un’intervista può durare anche diverse ore e in alcuni casi può svolgersi all’esterno, dove non sono presenti prese di corrente, è necessario avere delle batterie di ricambio.
Oggi esistono essenzialmente due tipi di registratori, quelli analogici e quelli digitali, che continuano a coesistere. In entrambi i casi ai vantaggi fanno da contrappunto agli svantaggi. Benché gli analogici siano ormai considerati obsoleti, vengono ancora molto usati, anche per la facilità con cui si possono reperire le audio cassette. I supporti digitali d’altro canto, se da un lato integrano in un unico dispositivo tutto ciò che può essere utile alla registrazione (microfono, registratore, ecc.) e permettono di salvare molte ore di audio, dall’altro non è detto che siano i più adatti alla conservazione.
Sta di fatto che importanti fondi sono tutt’ora conservati su supporti analogici con i quali bisognerà fare i conti per parecchio tempo. Per questo D’Aleo ribadisce più volte durante il suo intervento l’importanza di conservare sempre l’originale registrato su supporto analogico, poiché è ancora possibile recuperarlo, mentre su supporti digitali a volte non è possibile. Infatti, per quanto si pensi che il supporto ottico sia il più sicuro, in realtà è uno dei più fragili e deboli. Quindi, qualora un originale sia registrato su Cd, Dvd o memory card, è bene che venga riversato, magari in un hard disc esterno. Le cause della fragilità di Cd e Dvd sono molteplici, dalle caratteristiche dei diversi materiali che li compongono, alla loro sensibilità ai cambiamenti ambientali. Inoltre possono subire dei danni meccanici (a differenza di quello che comunemente si crede la parte più sensibile è quella superiore), e gli stessi pennarelli permanenti andrebbero utilizzati in una superficie ridotta, e solo nella parte centrale. Inoltre tanto maggiore è la quantità di dati che il supporto digitale può memorizzare, quanto più alto è il rischio di avere un grave danno ai dati. È quindi per questo che il danno aumenta se utilizziamo dei Dvd.
D’Aleo invita perciò ad essere cauti, “è importante essere sempre consapevoli degli strumenti che utilizziamo; i supporti tecnologici offrono molte possibilità, la cosa fondamentale è acquisire la consapevolezza della loro fragilità”. Per questo è fondamentale indagare quelli che lui definisce gli “aspetti grigi” degli strumenti a nostra disposizione.
D’altro canto l’avanzare continuo della tecnologia comporta la rapida obsolescenza dei diversi supporti e per questo dobbiamo necessariamente fare i conti con nuovi tipi di strumenti. L’importante è cercare sempre di utilizzarli bene e al meglio.
Dopo aver spiegato come avviene la digitalizzazione dei dati, introducendo il concetto di campionatura dei segnali analogici, D’Aleo arriva a spiegare il concetto di compressione dei dati. I registratori oggi in uso possono essere impostati su diversi tipi di compressione, ma è importante sapere che se è vero che maggiore è la compressione e meno fedele sarà il segnale registrato, è anche vero che più fedele è la registrazione più memoria viene occupata. Esiste una vasta gamma di segnali digitali compressi, il più diffuso dei quali è l’mp3. Questi sistemi di compressione sono detti “psico acustici adattivi”, poiché, come spiegato da D’Aleo,
tenendo conto del fenomeno di mascheramento che avviene naturalmente del nostro sistema cognitivo, si sono studiati quali segnali non vengono percepiti dai nostri orecchi. Quindi il sistema ha degli algoritmi che elimina quei suoni.
Internet ha favorito considerevolmente lo sviluppo di questi sistemi di compressione, tramite i quali i file audio possono circolare in rete più facilmente. Quindi le registrazioni compresse, mentre con le cuffie possono restituire un buon suono, con un impianto stereo di buona qualità mostrano i loro limiti. D’Aleo consiglia comunque di registrare sempre nel migliore dei modi e nella qualità migliore, altrimenti dopo non è più possibile migliorare l’audio.
È sempre importantissimo creare un file di backup del file originale e conservarlo in digitale in due modi, su un Cd o Dvd e su un hard disk, che per ora è considerato uno dei sistemi più sicuri per mantenere a lungo i dati.
Marco Marcotulli
Della stessa opinione è Marco Marcotulli, regista, documentarista e fotografo, il cui intervento, che ha seguito quello di D’Aleo, si è incentrato sulle questioni tecniche che riguardano le riprese video. Marcotulli precisa che esistono molti mezzi per poter salvare la videoregistrazioni, ad esempio sistemi raid che fanno automaticamente una copia di backup del materiale salvato nel computer. Inoltre prima che un sistema diventi obsoleto devono passare degli anni, durante i quali abbiamo tutto il tempo per prendere le dovute precauzioni. Quindi la responsabilità della perdita delle registrazioni non può essere imputata che a noi stessi, alla nostra incuranza e superficialità.
Anche il regista, come D’Aleo, invita a essere sempre consapevoli delle nostre azioni, dalle quali dipende buona parte del risultato del nostro lavoro. È bene ad esempio non cancellare mai l’originale analogico che può essere irripetibile perché i sistemi digitali sono soggetti a obsolescenza. Infatti le cassette miniDv dovrebbero essere sempre mantenute in archivio e, visto che Cd e Dvd sono molto labili per la conservazione dei dati, è bene che le registrazioni vengano subito riversati su un hard disk, il cui costo oggi non è elevato.
Marcotulli fa poi una breve panoramica dei programmi video esistenti, fra i quali i più usati sono .AVI e .mov.
Per quanto riguarda i mezzi di registrazione, possono essere acquistate telecamere che registrano bene a prezzi non elevati. Il problema spesso è il modo in cui vengono fatte le riprese. Il documentarista quindi, con l’aiuto di scene tratte da film famosi quali Apocalyps now, fa un breve panoramica delle regole per comporre l’immagine che possono aiutare a rendere la ripresa più gradevole. Infatti, decidendo l’inquadratura “non decidiamo solo quello che inquadriamo ma decidiamo soprattutto quello che togliamo”. È quindi buona norma, ad esempio, assecondare sempre il senso di lettura dell’immagine, come una pagina scritta, da sinistra a destra e dall’alto in basso. Cercare anche di seguire lo sguardo del soggetto. Tutto questo è importante in particolar modo se dobbiamo fare un’intervista ambientata e abbiamo la possibilità di scegliere l’ambiente, in questo caso si dovrebbe cercare di inquadrare l’intervistato nel contesto in una maniera gradevole. A questo proposito Marcotulli parla dell’importanza dell’“immagine sbilanciata”, che evita la monotonia data da una ripresa piatta; nel caso in cui il soggetto stia facendo un lavoro, si può mettere leggermente sbilanciato da una parte e dall’altra inquadrare quello che sta facendo.
Segue poi un breve excursus storico che ripercorre le tappe fondamentali dell’utilizzo del video come documentazione. Fino a pochi anni fa erano utilizzate quasi esclusivamente registrazioni audio in quanto i filmati erano abbastanza costosi e necessitavano dell’attività di più persone e operatori professionisti. Inoltre non si potevano fare interviste a presa diretta a causa del rumore fatto dalle macchine che fra l’altro, per le loro dimensioni, richiedevano studi televisivi. La situazione migliora con le cassette Vhs, che richiedevano ancora macchine abbastanza ingombranti ma i cui costi erano più accessibili. In questo caso però, mentre le cassette ad uso amatoriale erano meno costose ma di qualità inferiore, quelle ad uso professionale davano risultati molto buoni ma avevano prezzi elevati. La vera svolta si ha con l’avvento del digitale che ha permesso di effettuare riprese sul posto a costi minori. Con l’avanzare della tecnologia gli strumenti per registrare in digitale diventano obsoleti e questo ha fatto si che ci sia stato un miglioramento notevole nelle macchine, sempre più evolute e dai costi concorrenziali. La fascia di utenza quindi di queste attrezzature aumenta notevolmente e le spese di produzione sono ridotte quasi a zero. Basta infatti conoscere le nozioni basilari per poter effettuare una ripresa e un montaggio di buona qualità. Nell’arco di un paio di decenni quindi si è passati della pellicola al digitale e questo comporta l’utilizzo del computer.
Le riprese possono essere fatte in due formati: in 4:3 (il formato utilizzato dai televisori fino a pochi anni fa) e in 16:9 (il formato attuale).
I formati invece televisivi essenzialmente sono due, NTSC, usato in America, e il PAL, usato in Italia ed è importante conoscerne la differenza quando masterizziamo un Dvd che deve essere leggibile all’estero.
I supporti su cui andiamo a memorizzare i nostri filmati possono essere diversi in base alla telecamera che usiamo; le prime telecamere, come accennato in precedenza, usavano i nastri, adesso vengono usati le miniDv. Queste permettono di registrare fino ad un’ora di filmato in HD e sono state le più utilizzate fino a pochi anni fa. Hanno però il limite di essere soggette a usura; questo a causa della scarsa qualità del supporto che tende a rovinarsi, comportando la perdita dei dati. Per un certo periodo venivano utilizzate anche delle telecamere con miniHD interni ma erano poco pratiche sia per la lentezza nel riversare i dati che per la loro estrema fragilità. Oggi sono molto utilizzate le flash card, piccole schede di memoria su cui vengono memorizzati i dati e supportano diverse ore di registrazione in un buon formato. Queste presentano diversi vantaggi visto che sono molto resistenti, il costo dei supporti è contenuto e inoltre possono essere riversate in poco tempo.
Ad oggi quindi, il digitale permette di avere dei risultati buoni utilizzando un’attrezzatura minima. Non si deve dimenticare comunque che nella raccolta delle fonti orali conta soprattutto il rapporto che si instaura sin dall’inizio con l’intervistato. L’attrezzatura necessaria, per Marcotulli, si riduce quindi a due videocamere, un microfono esterno e il supporto per la videocamera. Diventa fondamentale compensare l’invadenza di questi strumenti con un buon approccio, entrando subito in sintonia con il soggetto. A questo proposito il fotografo dice una cosa molto importante, che non dovrebbe mai essere dimenticata dall’intervistatore: “Quando andiamo a raccogliere un testimonianza siamo noi che impariamo da lui [intervistato], è lui che ci da qualcosa e ci sta facendo un favore”.
Per quanto riguarda il microfono esterno, può servire a isolare i rumori del contesto se dobbiamo fare dei filmati in ambienti rumorosi, ma non è indispensabile nel caso in cui siamo in un interno e il microfono della telecamera è buono. È molto importante comunque verificare prima la resa audio, anche perché, come già accennato anche da D’Aleo, alcuni rumori non udibili dal nostro orecchio vengono invece catturati molto facilmente dal microfono.
Utilizzare una seconda telecamera invece può servire per registrare l’intervistatore, ma questa è una scelta soggettiva. Diventa importante se ad esempio dobbiamo realizzare un filmato da presentare ad un pubblico ampio. In questo caso possiamo effettuare il montaggio più facilmente utilizzando le diverse inquadrature. Inoltre ciò può aiutare a creare dei picchi di interesse, saltando anche i discorsi, montandoli in modo da richiamare l’interesse dello spettatore. Con l’aiuto di un secondo operatore si potrebbero anche fare inquadrature di alcuni particolari dell’intervistato, che arricchirebbero il documentario finale. Per quanto riguarda la disposizione delle telecamere, una andrebbe vicino al collo dell’intervistatore, così che sembri che l’intervistato guardi la camera, l’altra andrebbe messa in asse, che inquadra entrambi a mezzo busto.
Una disavventura che può capitare a chi registra delle interviste è, come la definisce Marcotulli, la “maledizione della telecamera spenta”, di cui parla anche Alessandro Portelli nel suo intervento. Cioè, al momento in cui la telecamera viene spenta, il testimone dice cose importantissime. Per evitare che ciò succeda al termine del colloquio sarebbe bene non spegnere la telecamera o il registratore, in modo da poter registrare anche tutti quei “suoni di vita” che fanno da corollario all’intervistato, che sono reali e possono essere utilizzati.
Un altro problema evidenziato dal documentarista nasce quando la persona tende ad auto rappresentarsi, cioè a telecamera accesa cambia tono di voce e sembra recitare; questo succede in maggior misura con i giovani rispetto ai vecchi e per rimediare a ciò si può, magari in un secondo momento, far tornare l’intervistato sullo stesso concetto, che potrebbe raccontare in un modo diverso.
Altro elemento da non trascurare è l’ambientazione dell’intervista. Marcotulli sottolinea l’importanza di lasciare la persona nel suo contesto, senza ricostruirlo rischiando altrimenti di creare uno scenario poco realistico, fondato solo sugli stereotipi dell’intervistatore. Per dare una dimensione all’immagine invece può essere utile far sì che dietro non ci sia il muro; a tal proposito mettere un oggetto prima e uno dopo al soggetto serve a dare profondità all’inquadratura.
Dopo aver realizzato l’intervista Marcotulli suggerisce di registrare a caldo tutte le informazioni sul lavoro fatto e archiviare poi questo file insieme agli altri dell’intervista. Ma il lavoro non é ancora finito fino a quando non si è riversato il filmato e non si è fatta una copia di backup su un apposito hard disc adibito solo a ciò. Oggi sono in vendita dei dispositivi di questo tipo a prezzi contenuti che permettono di archiviare molte ore di registrazione. Tutto questo lavoro a maggior ragione deve essere fatto subito se si tratta di miniDv, il cui rischio di deterioramento è considerevole.
A questo punto il montaggio può essere fatto con gli appositi programmi; il documentarista suggerisce Premier Adobe per il pc o Final Cat per il Mac.
Al termine del suo intervento Marcotulli con l’aiuto di un suo collaboratore ha mostrato come realizzare concretamente quanto detto. In questo caso sono stati impiegati una macchina fotografica che effettua riprese con una qualità molto elevata, un cavalletto, un microfono, e una luce.
Il regista ha inoltre mostrato un documentario da lui realizzato nel 1983 Canti lontani dal centro che, tramite la perfetta integrazione di interviste, documenti, fotografie, canti popolari e filmati di repertorio, racconta la Roma delle borgate e un mondo polare a noi ormai lontano.
La pubblicazione delle fonti orali: dall’esperienzadi ricerca alla restituzione della fonte.
AlessandroTriulzi
Una serie di interventi nel corso dei tre giorni di convegno hanno evidenziato come pubblicizzare e rendere fruibili ad un ampio pubblico, anche di non specialisti, le fonti orali raccolte nel corso dei vari progetti di ricerca. A tal fine sembrano avere un particolare successo film, siti internet, libri, Cd, mostre e video-istallazioni nati proprio dalla raccolta di storie di vita.
Alessandro Triulzi è docente di Storia dell’Africa subsahariana presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Orientale. Da diversi anni si occupa di storie di vita e racconti di migranti. La sua esperienza con la storia orale inizia in Africa, a cavallo con la frontiera Etiopica, nell’ambito di una scuola di italiano. Qui non è lui a svolgere le interviste ma dei ragazzi del posto, adeguatamente preparati; questo sia per una questione linguistica che per annullare tutte le distanze e le reticenze fra intervistato ed intervistatore. Oggi Triulzi fa rivivere tale esperienza nell’ambito dell’associazione Asinitas che opera a Roma e Milano e si occupa di educazione e intervento sociale rivolto a minori e adulti, italiani e stranieri. Qui Triulzi nell’ambito del progetto “Archivio della memoria migrante” coordina un gruppo di ricerca che si occupa di raccogliere testimonianze, narrazioni e storie di persone provenienti da paesi africani. I contatti vengono presi ancora una volta all’interno della scuola di italiano, e anche qui sono molte le difficoltà da affrontare. Infatti i testimoni, essendo migranti, nel sottoporsi ad un’intervista mostrano tutte le problematiche sia metodologiche che etiche del caso. Molti di loro infatti sono clandestini e hanno dovuto affrontare situazioni estreme per venire nella nostra terra. Per questo è stato fondamentale ancora una volta creare un contesto d’ascolto adeguato, addestrando i migranti stessi a svolgere le interviste.
Lo scopo di questo progetto è quello di lasciare in qualche modo traccia del passaggio di queste persone in Italia. Come dice Triulzi:
Questo progetto cerca di dire loro voi siete persone che attraversano la società in un momento di transizione, siete pionieri in molti casi. Le vostre storie non sono riconosciute. Noi crediamo che queste storie siano importanti da conservare, noi vogliamo lasciare traccia dei vostri racconti a prescindere se siete clandestini o meno, rifugiati o meno.
Anche per questo il professore pensa che questo materiale debba entrare a far parte dell’Istituto centrale dei Beni sonori e audiovisivi. È importante infatti che siano gli emigranti a fornirci la loro rappresentazione di sé, e questo forse potrà essere utile in futuro anche ai loro figli, che così potranno ricostruire le vicende vissute dai padri in Italia.
La stessa scuola di italiano da loro la possibilità di parlare di sé e della loro vita prima di emigrare, servendosi di questi argomenti come strumenti linguistici.
Le interviste sono state fatte in più riprese, lasciando parlare quanto più liberamente i testimoni e cercando di ridurre al minimo le interruzioni. Sono fatte in italiano da chi conosce un po’ la lingua, oppure nella lingua dell’intervistato.
Triulzi ha evidenziato più volte quanto sia problematico rendere queste frequentazioni costanti. Per rendere possibile ciò spesso sono gli stessi volontari dell’Associazione a pagare loro i mezzi pubblici per arrivare alla sede, cercando così di rendergli meno difficile la vita in Italia.
Le interviste conservate sono per lo più registrazioni audio, anche per tutelare la privacy dei migranti.
Nel fare le trascrizioni delle interviste sono diverse le difficoltà riscontrate sia di ordine linguistico che culturale. Infatti in questo senso non possono essere trascurati i diversi significati che si celano dietro uno stesso gesto o espressione nelle diverse culture.
L’archivio quindi si trova ad affrontare problemi enormi sia etici che metodologici perché, come racconta Triulzi, “Sono soggetti che scompaiono, nel corso delle interviste, non vengono più, vengono imprigionati […] oppure gli succede qualcosa sotto i vostri occhi, praticamente mentre parlate con loro”.
Parallelamente alle raccolta delle interviste Triulzi e Asinitas hanno dato vita a una serie di attività. Hanno organizzato mostre e fatto film, insegnando agli stessi migranti a filmare. Uno di questi Come un uomo sulla terra del regista etiope Dagmawi Yimer, dopo aver avuto una diffusione capillare tramite i social network, è stato trasmesso dalla tv nazionale. Dal film, Paolo Castaldi ha tratto il fumetto Etenesh. L’odissea di un migrante (2011)e sta uscendo dello stesso regista il quarto film Benvenuti in Italia. Per Triulzi, interviste e film dovrebbero servire ad “allargare il livello di consapevolezza della società civile in Italia rispetto al dramma dei migranti” e infatti, nell’età dell’immagine, utilizzando questi strumenti si può giungere ad un pubblico ampio e diversificato. L’obiettivo di Triulzi e di Asinitas sarebbe quello di creare in un futuro prossimo un archivio multimediale nel quale custodire questo importante materiale.